Era un uomo buono il signor Giuseppe, un credente convinto. Originario di Casteggio, era giunto a Piacenza quindicenne e vi si era stabilito aprendo una bottega di falegname. Rimasto vedovo con un figlio, dopo quattordici anni di matrimonio, si unì in seconde nozze con Teresa Chiassoni, piacentina, dalla quale ebbe altri nove figli, l’ultimo dei quali fu il piccolo Francesco. Apprezzato ebanista, il signor Giuseppe spendeva le sue giornate nella bottega di via delle Asse, tutto intento a guadagnare il pane per se e per l’allegra brigata di figliolo, ai quali si sforzava di dare una buona educazione cristiana.
Purtroppo la vita gli mancò presto. Troppo presto. E cosi, quando nel 1873 rese l’anima a Dio, sua moglie Teresa, rimase sola con dieci figli da crescere e sfamare. Francesco aveva appena nove anni. Chissà quante volte la povera donna avrà ripensato alle parole incoraggianti che le aveva sussurrato il marito in quella fredda notte di gennaio : “La provvidenza non ci mancherà”, le aveva assicurato. Ma i fatti sembravano smentirlo.
Il peso della famiglia ricadde per intero sulle sue spalle. Teresa seppe, tuttavia, rimboccarsi le maniche e non si diede per vinta dinnanzi alle difficoltà della vita.
La bottega di falegname fu presto ceduta e la famiglia si trasferì in via donnino.
Appena il tempo di piangere lo sposo e via, subito a lavorare perché con la fame non si scherza. Trovò lavoro confezionando divise per i soldati. Guadagnava tre lire al giorno, metà delle quali se ne andavano nella spesa del solo pane quotidiano. La sera poi, al lume della candela, rammendava, cuciva, aggiustava i vestiti logori dei suoi figli, finche vinta dalla stanchezza si addormentava mormorando qualche giaculatoria con lo sguardo rivolto all’immagine della vergine addolorata.
Perché se il pane fu scarso, non altrettanto può dirsi della fede, che non manco mai in quella povera famiglia. Essa fu anzi sostegno, conforto, aiuto in quegli anni difficili e su di essa s’imperniava tutta la vita della casa.
Alla fine la provvidenza non mancò. Aveva ragione il signor Giuseppe; i figli crebbero e la signora Teresa ebbe la gioia di vederli camminare nella vita. Specialmente quel Francesco, sul quale tante incognite pesavano alla nascita, sarebbe presto diventato la più tenera consolazione di quel cuore di madre. E non solo del suo, se per tutto il bene che ebbe a fare nella sua lunga vita, meritò il titolo di “ piccolo don bosco piacentino”.
Gli anni passavano veloci e i bimbi crescevano. Francesco era magrino e fragile di salute. alla scuola del sacrificio il bimbo aveva imparato la comprensione verso i poveri e dalla propria esperienza di orfano la solidarietà verso gli abbandonati e diseredati, in particolare l’infanzia bisognosa.
Ricevette la prima comunione nella basilica di sant’Antonino e frequentò le scuole elementari e tecniche presso il collegio di san Vincenzo.
In quegli anni sua sorella maggiore carolina andò in sposa a un tale Francesco torelli, un uomo buono e generoso, che s’impegnò a sollevare dalle spalle della signora Teresa, parte del peso del mantenimento e in particolare del piccolo Francesco, che in breve divenne il suo beniamino.
Il signor Torelli avrebbe voluto che il bambino proseguisse gli studi di ingegneria, del resto il bimbo era intelligente e a scuola otteneva eccellenti risultati che facevano presagire la sua brillante carriera. I suoi progetti però non coincidevano con quelli di Francesco, che voleva diventare sacerdote. La sua vocazione era chiara, non aveva dubbi, solo gli spiaceva deludere le aspettative dei familiari.
Francesco ebbe l’idea di confidarsi con il direttore del collegio san Vincenzo presso il quale studiava. L’uomo comprese il combattimento interiore del ragazzo e seppe consigliarlo al meglio, tanto che negli anni lo stesso Torta ebbe a dire: ” a lui devo in gran parte se ho potuto seguire la mia vocazione. Fu egli che mi raccomandò al grande vescovo mons. Giovan Battista Scalabrini il quale, da lui assicurato della mia vocazione, mi permise di frequentare il seminario aiutandomi in tutti i modi affinché potessi regolarmente terminare gli studi”.
Accadde, infatti, che durante il saggio di premiazione che veniva organizzata dai fratelli delle scuole cristiane a fine anno scolastico, Francesco recitò in francese un indirizzo d’omaggio in onore del Vescovo. Scalabrini rimase molto colpito da quel dodicenne, già precedentemente informato sulle virtù del ragazzo e sulle precarie condizioni economiche della famiglia, lo rassicurò con una frase che rimase sempre impressa nel cuore del Torta: “ghe pense mi”
E cosi fu’. correva l’anno 1876 e il giovane Francesco torta veniva ammesso a frequentare come alunno esterno il seminario vescovile, possiamo immaginare la gioia di quel ragazzo, che vedeva realizzarsi il più grande sogno della sua vita, diventare prete!
La provvidenza non si dimenticò di lui e così, mentre la mamma Teresa e il signor Torelli provvidero come potevano al corredo, il giovane ricevette in dono il cappello da un sacerdote amico e la veste dal collegio alberoni.
Finalmente Francesco entrava in seminario e sarebbe diventato sacerdote. Con la povertà per amica, la fede per scorta e una grande volontà per compagna, il giovane Torta s’incamminava per le misteriose vie di dio.